MARCO BELLOCCHIO: I PUGNI ERANO IN TASCA (E PRONTI AD ESPLODERE) E LA CINA ERA VICINA
di Giovanni Berardi
Il regista Marco Bellocchio è stato a Fondi dove ha aperto la XXIV edizione del FondiFilmFestival il 18 settembre scorso. Bellocchio è un autore che ho sempre amato. Il suo primo film, girato nel 1965 lo ricordo ancora come un capolavoro assoluto. Il film era bellissimo e decisamente resta ancora bellissimo. E drammaturgicamente perfetto, tanto che in tempi recenti ne è stato tratto anche un copione teatrale ricco di lirismo ed intatto nella sua fedeltà di rivolta. Poi “I pugni in tasca” non era solo bello, era, ed è, anche formidabilmente importante, quasi un testamento. Il film portava con sé un aria ed una sensualità assoluta di rivolta, ed i tempi, il 1965, nella società italiana non erano ancora così preparati, incazzati, così decisi e svelati. Ne “I pugni in tasca” avvertiamo ancora oggi l’idea del capolavoro, proprio “nella misura in cui” il filmaveva nella sua grammatica una chiara e netta valenza di preveggenza. Diciamo anche: con la filmografia di Marco Bellocchio, e questo sicuramente con i primi quattro titoli della sua filmografia, “I pugni in tasca”, 1965, “La Cina è vicina”, 1967, “Nel nome del padre”, 1970, “Sbatti il mostro in prima pagina”, 1972, si riesce a comporre quello che è il clima culturale, politico, religioso, sociale di un’ epoca, esattamente dal boom economico dei primi anni sessanta e fino alle primissime avvisaglie dei mutamenti dei quadri politici, nei primissimi anni settanta.
Ma andiamo dunque per ordine: innanzitutto quale la necessità, all’epoca intendiamo, di girare un film come “I pugni in tasca”? Dice Marco Bellocchio: “la mia necessità dell’epoca era sicuramente quella di voler fare al più presto un film. Capire anche se quella era davvero la mia strada, e vedere anche se ne ero effettivamente capace. Ed ho girato “I pugni in tasca”. Come nasce Marco Bellocchio regista, come ricordare il momento ora che sono passati quarant’anni e quale il piacere di Bellocchio giovane verso i generi del cinema? Dice Marco Bellocchio: “al tempo amavo moltissimo il grande cinema tradizionale, drammatico, romanzesco. Mi piacevano molto Visconti, Renoir, il cinema provinciale di Antonioni e di Fellini. E dalla Francia poi ammiravo i primi grandi film della Nouvelle Vogue. In Italia non vi era un movimento simile, ed io cominciavo già a percepire quello che stava diventando lo stato del cinema italiano nel periodo, film stanchi. Persino dagli autori più stimati. Comunque il primo grande desiderio verso il cinema riguardava la possibilità di poter fare l’attore. Marlon Brando, James Dean erano i modelli della mia generazione. Facevo in quegli anni del teatro, poi un difetto di laringe non mi ha permesso di andare avanti. Scelgo di venire a Roma a fare il Centro Sperimentale di Cinematografia e a Roma preferisco i corsi di regia accantonando così l’idea di diventare un attore del cinema …”
“I pugni in tasca” era un film esclusivo, autonomo, solitario, veniva, in definitiva, da un autore proveniente dalla provincia più tranquilla, da un autore assolutamente esterno, in fondo, a quello che era il cinema italiano più ufficiale del periodo, neorealismo, commedia all’italiana e film di genere, tra le sue scene si avvertiva spudoratamente (e qui si grida al fenomeno) quelli che erano i precisi contenuti di rifiuto, anche
di una semplice tradizione culturale, di un modo di vedere e percepire la società più immediata. “I pugni intasca”, tra le sue liriche, e già nel titolo, con quei pugni ancora costretti nelle tasche ma pronti ad esplodere, già alludeva, in qualche modo, alla rivolta, proprio quella che si sarebbe espressa negli anni immediatamente successivi, nel 1967 ad esempio (anno in cui Bellocchio firma il suo secondo titolo, il più politicizzato “La Cina è vicina”) con le primissime avvisaglie in Francia e nel 1968 con i primi movimenti in Italia e Germania ovest. Dice Marco Bellocchio: “sicuramente le esperienze personali di quegli anni, come spesso succede, si sono trovate a coincidere con le esperienze più universali, e diventare poi interpreti di un disagio più ampio. Nel periodo vedevo ne “I pugni in tasca” solo un esperienza, in verità, un po’ troppo autobiografica, veramente poco attenta alla problematica circostante. In questo senso sottovalutavo certamente il film. Cioè non mi rendevo conto davvero della carica che poi il film, nei fatti, ha dimostrato di avere”.. Una carica che poi ha offerto il destro al cinema italiano favorendo la produzione di altri film nel periodo, non vi è dubbio ad esempio che i debutti nel cinema di Salvatore Samperi con “Grazie zia” e quello di Roberto Faenza con “Escalation” si devono alla forza trainante di un film come “I Pugni in tasca”. Ma noi oggi restiamo quelli assolutamente in controtendenza perché pensiamo, ad esempio, pur riconoscendo naturalmente a I pugni in tasca il valore assoluto del capolavoro, a titoli come “Sbatti il mostro in prima pagina” uno dei migliori film di Marco Bellocchio, proprio insieme a “Marcia trionfale”, 1976, e a “Diavolo in corpo”, 1986. Forse perché è in questi tre titoli che troviamo davvero svelato e netto, quello che veramente chiediamo ad un buon film, semplicemente lo spettacolo più netto e più preciso, diretto e senza preamboli, preamboli i quali, spesso, possono avere il valore dell’artificio. “Sbatti il mostro in prima pagina” è un titolo che lo stesso Bellocchio, come buona parte della critica più ufficiale, non ritiene tra le cose più giuste che ha fatto. In realtà, “Sbatti il mostro in prima pagina”, ha descritto una situazione sociale, il discredito della sinistra extraparlamentare, e lo ha fatto in maniera assolutamente precisa, chiarendone in fondo e a largo conflitto gli aspetti più oscuri, anche perché ambientato nel tessuto realistico delle giornate immediatamente prima le elezioni politiche dell’11 maggio, la cronaca, quella più immediata, invero era l’effettiva protagonista. “Marcia trionfale” poi lo abbiamo amato soprattutto per un nostro vezzo senz’altro audace, ma ispirato, la vita in caserma di Bellocchio all’epoca la trovavamo “spudoratamente” stupenda perché, e lo giuriamo,
c’è sembrato più ispirato, nella simpatia naturalmente da pellicole quali “Patrocloo e il soldato Camillone, grande grosso e frescone”, 1973, Mariano Laurenti e da “Il colonnello Buttiglione diventa generale”, 1974, Mino Guerrini che non, piuttosto, come la statura dell’autore faceva pensare, da “La collina del disonore”, 1961, di Sidney Lumet, o da “E Yhonny prese il fucile”, 1971, di Dalton Trumbo. “Marcia trionfale” si portò comunque dietro, per molto tempo, una accusa, quella che tra il film e la realtà nelle caserme non vi era nessuna aderenza. E Marco Bellocchio sull’accusa si è sempre difeso sostenendo che il suo film era una storia, e la caserma solo una istituzione come tante, come poteva essere una scuola o un manicomio. D’altra parte il film non era assolutamente un film militante, come invece poco prima lo era stato appunto “Matti da slegare”, e forse da questo dato nasceva l’equivoco, in “Marcia trionfale” c’erano tutti in fila gli ingredienti dell’industria del cinema, un produttore, un circuito ufficiale di distribuzione, una scelta accurata dei manifesti pubblicitari, uno slogan preciso per cui il film andava visto e, in ultima analisi, attori alla moda, Franco Nero, Michele Placido, Miou Miou, Patrick Dewaere. E “Diavolo in corpo”? Non neghiamo che con Diavolo in corpo ha funzionato, preciso come un orologio, il forte richiamo pubblicitario creato intorno alla scena della fellatio, che la Maruska Detmers pratica con estrema intensità e buon realismo al bravo Federico Pitzalis. Questo è stato, senz’altro, il viatico perfetto al successo popolare del film. Nel periodo si diceva che per girare questa scena tutta la troupe fu costretta ad abbandonare il proscenio onde facilitare ai due attori la massima comprensione tra loro e la massima concentrazione. Bellocchio pensava, in qualche maniera, alla possibilità di far nascere tra la Detmers ed il Pitzalis, una possibile verità di confidenze. Dice Marco Bellocchio: “mi ero posto davvero, durante la lavorazione di “Diavolo in corpo”, di capire nel profondo la situazione più idonea per rappresentare le scene amorose. Le volevo semplicemente, solo più vere e poetiche”. E con “Diavolo in corpo” inizia un momento davvero diverso in cui Bellocchio sperimenta un percorso di cinema utilizzando la consulenza nella sceneggiatura e sul set di un medico psichiatra come
il dottor Massimo Fagioli. Bellocchio chiamerà questo tentativo “un ipotesi di cinema finalmente completa”. “La visione del sabba”, 1987, “La condanna”, 1991 e “Il sogno della farfalla”, 1994 sono i momenti decisivi di tale esperienza che durerà con i dinieghi e i risentimenti più netti, tutto sommato, della critica più ufficiale e, finanche, dalle produzioni degli stessi film, non sempre in linea con le idee di Marco Bellocchio e di Massimo Fagioli.
“Diavolo in corpo” è, senza meno, il film più spettacolare girato da Bellocchio sui temi della follia e sui temi della lotta armata, “Buongiorno notte”, 2003, ad esempio è un culmine sul genere. In parallelo, e a ben guardare, “Diavolo in corpo” poi è anche un film sulla normalità del conformismo, anzi sulla mediocrità assoluta del conformismo, che Bellocchio esprime dentro una condizione di riferimento: la borghesia. Il tema della follia, e della normale follia, è sempre stato presente quasi in tutte le opere di Bellocchio, anzi a ben guardare è la tematica più urgente e sentita, insieme a quella sulla lotta armata. Già con “ I pugni in tasca” Bellocchio aveva anticipato quello che era in qualche maniera, il tema della follia raccolto in un contesto borghese, poi con “Matti da slegare”, girato nel 1975 in una condizione di co-regia insieme a Silvano Agosti, Stefano Rulli, Sandro Petraglia, “Matti da slegare” fu realizzato come un film militante e la materia trattata subiva quasi un processo (naturalmente positivo da tutti i punti di vista) di ideologizzazione e di istituzionalizzazione. Poi con “Salto nel vuoto”, 1980, “Gli occhi, la bocca”, 1982, il coinvolgimento sul tema della follia diventa netto. Persino in “Marcia trionfale” in qualche maniera, un soggetto solo in apparenza più lontano dal tema, lo spettro della follia adombrava comunque in caserma tra le sembianze del capitano Asciutto ed in “Vincere” poi, dove è la “follia” in fondo ad accompagnare i comportamenti del dittatore Benito Mussolini. E quando Bellocchio ricorre a Luigi Pirandello con le versioni dell’ “Enrico IV”, 1984 e de “La balia”, 1999, e a Heinrich Von Kleist per “Il principe di Homburg”, 1997, non smette di trattare il segmento della follia come un margine essenziale per la più diversa umanità. Ed ora? Dice Marco Bellocchio: “oggi mi sento per niente vincolato a discorsi ideologici contenutistici, oggi mi interessa soprattutto la Storia, sono affascinato dalle storie della storia, anche dalla sua cronaca più immediata”.
Ed in questo contesto possiamo certamente catalogare le sue ultime opere, che vanno da “Bella addormentata”, 2012, sul caso Eluana Englaro e sul dibattito del fine vita e dell’accanimento terapeutico, ”Fai bei sogni”, 2016, dal romanzo autobiografico in cui il giornalista Massimo Gramellini racconta il suicidio della mamma, “Il traditore”, 2019, il ritratto del mafioso Tommaso Buscetta, membro di Cosa Nostra e dopo collaboratore di giustizia, “Esterno notte”, la sua prima serie televisiva, sul rapimento e il delitto di Aldo Moro, 2022, e “Rapito”, 2023, sul caso del bambino ebreo bolognese sottratto con la forza alla sua famiglia dal Vaticano e quindi costretto ad una educazione cattolica.
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