LA “PRIMAVERA ARABA”: ANALISI DI UN FENOMENO DAI TANTI EFFETTI ANCORA INESPRESSI

di Cristina Semeraro

I tumultuosi eventi che hanno investito l’area nord-africana e medio-orientale all’inizio del 2011 stanno ancora incidendo significativamente sulla stabilità degli stessi Paesi coinvolti e di molti altri governi, ad essi limitrofi e non, con una spiralizzazione delle criticità e delle rivendicazioni popolari, spesso strumentalizzate da forze destabilizzanti e quasi sempre represse con lAncora violenza in Piazza Tahrir’uso della forza da parte delle autorità locali. L’eco della protesta si è rapidamente diffusa al punto da coinvolgere regimi ritenuti fino a quel momento intoccabili. E’ così che Tunisia, Libia, Egitto, Yemen e Siria si sono trovati a fronteggiare uno scenario nuovo che, in quanto inaspettato, li ha colti impreparati ad affrontare l’emergenza e ha quindi portato importanti cambiamenti nei ranghi istituzionali. Dei citati Paesi, solo il sistema siriano è stato in grado di resistere a tali sollecitazioni popolari, con il risultato di aver generato una sanguinosa guerra civile, una crisi umanitaria senza precedenti e una allarmante conflittualità su base confessionale con la nascita del “Califfato islamico” ad opera dell’Islamic State (anche conosciuto con il termine di ISIS o ISIL).    Lo spirito emulativo che ha alimentato il fenomeno nelle succitate aree è stato tanto imponente quanto sentito era il sentimento di disagio sociale ed economico percepito dalle comunità. Laddove l’humus locale è stato da lungo tempo contrassegnato da disuguaglianza, corruzione, odio etnico-religioso, sperequazione economica e cattiva distribuzione della ricchezza, repressione e limitazione dei diritti fondamentali (quali la libertà di espressione e di militanza politica), le condizioni per il “risveglio” delle masse hanno avuto un impatto dirompente. Il diffuso impiego del Web e dei Social Media ha svolto un ruolo moltiplicatore e ha diffuso nell’etere la volontà di riscatto delle popolazioni, sempre più unite attorno ad un’idea di rivalsa e di lotta di piazza. Le rivolte esplose dapprima nel Nord Africa e poi propagate anche in altri Paesi del Vicino e Medio Oriente sono state da molti paragonate alle sollevazioni anti-comuniste in Europa del secolo scorso. Nel caso europeo, in particolare, la caduta del muro di Berlino, di cui quest’anno ricorre il venticinquesimo anniversario, avrebbe rappresentato l’inizio di quel cambiamento radicale che, da lì a poco, avrebbe portato ad un riavvicinamento tra Est ed Ovest, condizionando i successivi decenni di storia del vecchio Continente. La similitudine tra i due “grandi eventi” è, difatti, solo funzionale a spiegare l’entità degli effetti che entrambi hanno prodotto ma, nella sostanza, il confronto stenta a trovare altre convergenze per l’enorme diversità delle condizioni temporali, politiche, economiche, ideologiche e culturali in cui gli stessi vengono a concretizzarsi. Una differenza sostanziale tra la “Primavera Araba” ed il 1989 “europeo” sta proprio nel concetto di democrazia e di come essa venisse percepita. Nei Paesi del blocco comunista, infatti, l’accezione del termine era ben noto e, sebbene in forma deformata e diversamente applicata, la popolazione era cosciente della sua importanza e della necessità di una affermazione della stessa nel vivere quotidiano e nella gestione delle relazioni intra e inter-nazionali. Proprio tale coscienza, chiara e ben definita, nonché la cultura posta alla base di tale consapevolezza hanno rappresentato la spinta inevitabile ed inarrestabile per la sua affermazione. Nel caso dei “regimi” arabi nord-africani e medio-orientali, diverse sono le basi su cui ricercare i fondamenti del cambiamento espresso nel modo così eclatante e travolgente a tutti noto. In realtà, la maggior parte dei Paesi coinvolti non erano altro che il risultato di una democrazia mai espressa liberamente. Essi erano il prodotto di colpi di Stato militari avvenuti negli anni cinquanta e sessanta, ovvero un momento storico in cui la voglia di riscatto e il desiderio di staccarsi da una opprimente presenza straniera (post-colonialismo) era fortemente sentito ed alimentava sentimenti, non senza influenza e volontà strumentali, che solo le forze militari erano in grado di accollarsi. In sostanza, quell’ondata di colpi di Stato appariva l’unica o la più soddisfacente risposta ai problemi dell’epoca, l’unico modello istituzionale in grado di ridare dignità o credibilità alle singole realtà nazionali troppo immature e prive di esperienze di governo per potersi esprimere diversamente. Lo spirito “conservativo” delle proprie identità, nonché il pretesto dell’auto-protezione furono le condizioni di base su cui gli stessi governi giustificarono, agli occhi della Comunità Internazionale, le scelte nazionalistiche fatte a scapito di una maggiore liberalizzazione del pensiero e dell’azione. Il cambiamento che si stava adottando partiva da un concetto di fondo: negare, obbligare e reprimere tutto ciò che era incontrollabile o poteva diventarlo. Le generazioni nate e cresciute in tale contesto politico-sociale non avevano, pertanto, mai conosciuto altra forma di confronto con le autorità nazionali se non quelle a cui erano obbligati. Il concetto di libertà individuale, di utile ed auspicabile confronto di opinione, di espressione libera e senza pregiudizi della propria personalità non appartenevano al DNA di tali popolazioni e, probabilmente, ne disconoscevano la possibilità.

Dopo circa quattro anni da quello che è stato ritenuto lo straordinario risveglio di Nazioni da decenni oppresse da soffocanti regimi, una riflessione ed un’analisi critica è opportuna, anzi necessaria. Appellando il fenomeno con il titolo di “Primavera Araba” si era forse pensato che fosse finalmente giunto il momento per alcune realtà statuali di definirsi in un nuovo ordine istituzionale, magari molto più vicino a quello democratico del mondo occidentale. Le prospettive che si erano immaginate erano ispirate da reale ottimismo, nella convinzione che gli eventi fossero promettenti ed a favore di una apertura di nuove chance relazionali e con esse nuove opportunità economiche. D’altronde, il termine “Primavera” viene normalmente associato a qualcosa che rinasce, che riparte con una visione nuova e promettente. Anche la Siria, considerata oggi il fulcro e l’origine delle preoccupazioni internazionali in Medio-Oriente, ha avuto la sua “Primavera” e l’ha avuta proprio con l’attuale Presidente Bashar Al-ASAD. L’inizio del suo mandato presidenziale (2001/2002) fu denominato proprio “Primavera di Damasco” per indicare l’innovativo percorso avviato dal giovane Presidente a sostegno della nascita di movimenti di opinione indipendenti e di programmi di riforma economica che dovevano servire a dare slancio ed opportunità al sistema Paese.

Altri esempi di “Primavere” – come quelle di Praga (1968 – in occasione del processo democratico avviato dalle Autorità locali ma fortemente osteggiato dai sovietici), di Pechino (1989 – con la nascita di una generazione con il coraggio di lottare per la libertà di espressione e per la democrazia – famosa piazza di Tienanmen) o di Varsavia (1943 – prima ribellione/resistenza armata contro i nazisti – ebrei contro SS tedeschi) – rappresentano sempre un momento storicamente importante per il Paese e la relativa popolazione che le ha vissute. Il fatto di dover continuare ancora oggi dibattere sulla “Primavera Araba” e sugli effetti che ha e sta generando è indice che qualcosa non è andato nella direzione auspicata. La “svolta” che tutti si aspettavano non c’è stata ed i motivi di preoccupazione per il futuro in termini di stabilità dell’area, di sicurezza e di impatto diretto ed indiretto nelle dinamiche occidentali sono più che mai presenti.

Ciò che l’uomo ha impedito per anni è stato colmato dalla diffusione dei mezzi di comunicazione e dall’avvento della globalizzazione, ovvero da quel processo per cui un interesse nazionale non può più sottrarsi a quel circolo vizioso che lo obbliga a confrontarsi e ad interagire con altre realtà. Tutto diventa inesorabilmente legato a qualcos’altro, come l’economia, il ruolo politico, gli interessi ed il controllo delle aree strategiche. Il Nord Africa, il Vicino e Medio Oriente non sono mai stati uno spazio di libertà, che fossero individuali o per tutta la comunità, ma con essi l’Europa e la società in cui ci riconosciamo deve imparare a confrontarsi e dialogare. Un dialogo che per molto tempo è stato condizionato dalla diversa visione di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Le Diplomazie occidentali, e con esse anche l’Italia, non hanno forse saputo esprimere soluzioni ed interventi risolutivi e di apertura al confronto costruttivo. Lo scontro etnico-culturale-religioso che ne è scaturito è oggi, più che mai, tangibile nelle rivendicazioni multi-dimensionali e multi-direzionali che caratterizzano gli scenari di crisi e nella proliferazione di ideologie estreme.      Con la nomina del Ministro Mogherini ad Alto Rappresentante per la Politica Estera nell’ambito delle istituzioni europee, l’Italia può oggi diventare protagonista di un nuovo percorso della diplomazia internazionale. Lo sviluppo involutivo degli scenari di crisi e la moltiplicazione delle criticità che sempre più direttamente coinvolgono la nostra società deve rappresentare lo stimolo per la ridefinizione dei contesti geopolitici (ovvero di come la politica è condizionata dalla geografia) nazionali e dell’alleanza europea e delle relative strategie di intervento e condizionamento degli sviluppi evolutivi. I consistenti flussi migratori stanno dimostrando come il capolinea Europa sia visto da molte popolazioni come un’opportunità, ma l’impreparazione ad affrontare tali emergenze rende le nostre società più vulnerabili e soggette a critiche. Nell’operazione “Mare Nostrum” il nostro Paese si è assunto una grande responsabilità umanitaria prima ancora che politica e solo con molto ritardo l’Europa ha riconosciuto anche i propri oneri di fronte ad una emergenza che richiede un approccio condiviso e sinergico. E’ opinione diffusa che i conflitti del XXI secolo riguarderanno la conquista del cibo, dell’acqua, dell’energia e che per questo le potenze aspiranti al controllo delle risorse dovranno raggiungere e mantenere un adeguato livello di capacità e deterrenza. Per tale ragione i riferimenti “geografici” perderanno gran parte del loro significato; ogni Paese o Alleanza dovrà riferirsi a spazi ed ambiti oltre i propri confini e la definizione degli interessi geoeconomici si plasmerà in funzione delle mutevoli esigenze.   Gli scenari che si stanno profilando stanno coincidendo con la crisi globale che coinvolge anche le economie più opulente. Questo fattore aggiuntivo non è di poca importanza se immaginiamo gli scenari che si potranno prefigurare per dare nuovo spazio e possibilità ad una economia fin troppo condizionata da regole di mercato poco competitive e, talvolta, eccessivamente egocentriche, ovvero basate su spazi di riferimento nazionali e non globali. In sostanza, anche la “Primavera Araba” può rappresentare, per le conseguenze che la stessa è stata in grado di determinare, un “banco di prova” per testare la maturità dei principali Paesi e Comunità propulsori dell’economia globale nel rivestire un ruolo chiave nel condizionamento dei futuri equilibri internazionali. Già nel breve periodo, la sfida è quella di individuare i termini di questo riequilibrio dove l’intero continente africano e il Medio Oriente rappresentano un fulcro fondamentale, per goderne gli effetti nei prossimi decenni ed assicurarsi una governance stabile ed efficace. Tuttavia, diversi restano i driving factors che rimandano, ancora una volta, l’analisi della situazione e la valutazione previsionale su livelli di massima incertezza. Su questi aspetti occorre lavorare per trovare congiunture e valide soluzioni. Il 2011 verrà certamente ricordato come l’ “anno zero” per molti Paesi dell’area nord-africana e medio-orientale. L’anno in cui nulla tornerà ad essere più come prima. Anche all’esame della storia, la “Primavera araba” rappresenterà il punto di svolta: il momento in cui le società, costrette da decenni a subire l’umiliante ed ingombrante presenza di regimi autoritari e corrotti, hanno deciso di rivendicare il diritto di essere protagoniste della propria vita e dei propri destini. Il processo che si è avviato è, però, ancora lungo e deve ancora affrontare la fase più complessa del suo cammino, ovvero la nascita di una identità nazionale in cui possano riconoscersi le future istituzioni ed attraverso la quale le popolazioni possano soddisfare i propri interessi e le proprie aspettative.

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